E’ un quadro critico quello della cerealicoltura italiana, con un kg di grano convenzionale quotato meno di una Coca-cola, e la sua coltivazione, fuori dai sostegni agricoli, del tutto antieconomica. Determinanti le pressioni delle materie prime estere, necessarie per soddisfare la domanda interna, per il consumo nazionale, ma anche per la trasformazione in prodotti ‘identitari’ del Made in Italy destinati all’export. Con proprio il consumo relativo in calo, per l’insorgenza endemica di patologie metaboliche correlate al glutine.
Eppur si muove, nelle iniziative basate sulla riorganizzazione del settore nell’ordine di filiere locali, che fioriscono in tutto il territorio nazionale con il valore di una rivendicazione. Lo sforzo è quello di una valorizzazione dettagliata di ogni atto di filiera che concorre all’identificazione di nuovi standard di qualità, sia produttive, che di consumo. Entro una nuova prospettiva di sostenibilità ambientale. Insieme a pratiche di molitura, panificazione e pastificazione con spiccato riferimento alla tradizione, la rivalutazione del patrimonio genetico della biodiversità cerealicola ne è la chiave, passando da nuove selezioni fino al recupero dei frumenti ‘primitivi’, o ‘antichi’, antecedenti alle pratiche di miglioramento del dopoguerra.
Riguardo a quest’ultimi, senza entrare nel dettaglio di un dibattito controverso, c’è da dirlo, non sono la panacea di tutti i mali. Per le rese contenute, l’esposizione a fitopatie tipiche e le caratteristiche peculiari in termini di trasformazione che richiedono spesso un elevato know-how. Dal punto di vista nutrizionale, non danno risposte al dilemma del celiaco, la cui cura consiste in ogni caso nel sospendere l’alimentazione a base di frumento. Ma essendo la nutrizione un fenomeno tanto quotidiano quanto complesso, questo trend si può dire risponda ad un bisogno sociale ormai diffuso: il ritorno ad un cibo salubre, ed espressione della terra.
E qui la questione della biodiversità gioco un ruolo-cardine. Una buona agricoltura sceglie varietà coerenti con il territorio, nel recupero della cultura rurale integrata a nuovi modelli di scientificità. Varietà idonee a condizioni pedo-climatiche determinate hanno in tendenza un minore bisogno, anche se non nullo, di apporti ‘esogeni’ – chimici- rispetto a varietà da imporre produttivamente ad ogni costo. Come quello pagato dalle campagne, dai terreni impoveriti o peggio, in accumulo di sostanze derivanti da pratiche intensive e dissipative.
Nel caso dei frumenti, la biotecnologia moderna ha assecondato le logiche dell’industria nella selezione varietale, ha promosso i glutini resistenti (per la trasformazione) e contenuti in amido (per le rese), tralasciando gli aspetti salutistici, e spinto gli stessi agricoltori a rintracciare strategie produttive, puntualmente fornite dall’agro-chimica, che rispondessero al mercato più che ai propri suoli. Questo targeting selettivo ha progressivamente eroso un ricco patrimonio ‘biodiverso’, oggi compromesso, e messo a rischio, oltre che gli ecosistemi e la loro resilienza (capacità determinante per fronteggiare i cambiamenti climatici), anche la salute umana.
Mangiare sano, oltre che non contaminato, vuol dire mangiare variegato, con la giusta rotazione di alimenti, anche di specie, sia animali che vegetali.
Il ritorno alle varietà antiche, e a pratiche di produzione di piccola scala, favorisce il ritorno nel piatto di una molteplicità di micro-elementi e sostanze nutrizionali, che la grande agro-industria ha perso per strada, nelle pochissime cultivar e nei processi produttivi intensivi. Contrasta, da un lato, l’accumulo occulto di sostanze onnipresenti nei prodotti industriali, alleviando il quadro entro cui si sviluppano le cronicità e le intolleranze, dall’altro quel tipo di nuova fame a cui è subdolamente esposta la nostra società, dipendente dagli integratori, la fame di fattori nutrizionali. Senza parlare poi della riqualificazione in termini sensoriali, dei profumi, dei colori, delle consistenze, fondamentali per un’alimentazione quotidiana appagante, ben oltre la pura estetica del foodismo, della compulsione del post sui social in luogo del pasto come atto sociale e valore intimo.
Proteggere e scegliere la biodiversità è dunque molto di più del monito dell’ecologista, è lo straordinario contributo integrato del produttore e del consumatore, che intervengono favorevolmente in quel connubio salute-natura che tutta la contemporaneità è chiamata a soddisfare.